Patti Smith regala al pubblico londinese una serata indimenticabile.
Se oggi, camminando per New York, ci si addentra fino al numero 315 della Bowery, non ci troviamo davanti al CBGB, storico fulcro del punk americano, ma ad un negozio di abbigliamento. All’interno, per fortuna, restano le pareti originali, adornate da foto ritraenti le band che hanno fatto la storia del club. Nonostante il locale non sia più dedicato alla musica dal vivo, si percepisce una sorta di energetica vibrazione sonora. La leggenda non vuole andarsene e vive ancora tra quelle mura.
E la leggenda vive ancora in Patti Smith, una delle protagoniste di quell’irripetibile momento a New York, in cui tutto sembrava possibile, persino che una donna fronteggiasse una rock band. Patti Smith è ancora questo e molto altro; è un’artista che crede nel potere comunicativo della musica e delle parole. Lo dimostra fin dal nome che ha dato al suo ultimo spettacolo, Words and Music, passato dalla Roundhouse lo scorso 25 gennaio.
Per l’occasione, l’atmosfera che circonda la venue ricorda più quella di un reading di poesia, che un concerto rock; il pubblico è seduto, pronto ad incontrare Patti, la poetessa. In fondo, è questo che la cantante voleva diventare fin da quando raggiunse Manhattan nel 1967 ed è così che Janis Joplin, nella sua breve vita, l’ha sempre chiamata. Con l’attacco di Ghost Dance, seguita dalla lettura di The Divine Image e My Blakean Year, dedicata a William Blake, è Patti la poetessa, l’ammiratrice di Rimbaud, a dominare il palco.
Quando però le prime note di Dancing Barefoot risuonano nell’auditorium, alla poetessa segue la rockstar. O meglio, questi due aspetti così potenti della Smith coesistono in un’unica ipnotizzante energia. La passione di Patti è tale da render vive parole impresse sulla carta, come quelle di Virginia Woolf in The Waves, che la cantante legge accompagnata al piano dalla figlia Jesse. La voce della Smith e la liricità della Woolf sembrano appartenersi da sempre. Due artiste lontane nel tempo, ma vicine nel loro essere.
La grandezza dei pezzi proposti dalla Smith sta nel viaggiare e mutare attraverso le epoche, raggiungendo nuove generazioni. Pissing in a River, un brano nato dalla spontaneità cara alla giovinezza, ha acquisito, con gli anni, un significato che lo fa apparire senza tempo. La stessa aurea avvolge l’esecuzione delle cover di Beds Are Burning e Love is All We Have Left; la Smith infonde nuova vita a un mediocre brano anni ’80 e ad una canzone meno nota degli U2, appropriandosene.
Patti è supportata da un’ottima band di cui fa parte anche il figlio Jackson, protagonista assieme a Tony Shanahan nel brano Tarkovsky (The Second Stop is Jupiter) e nel medley I’m Free/Walk on the Wild Side (non c’è niente da fare, quando viene suonata una canzone di Lou Reed, il cuore rimpiange che se ne sia andato troppo presto).

Poi ancora una volta, seguendo il ritmo che ha caratterizzato tutta la serata, il Rock ‘n’ Roll si trasforma con assoluta naturalezza in poesia. Patti introduce il suo brano più famoso attraverso le parole di Just Kids: “Camminammo verso Times Square per vedere il cartellone bianco che proclamava ‘WAR IS OVER! If you want it. Happy Christmas from John and Yoko’ […] Gli anni ’60 stavano volgendo al termine. Robert (Mapplethorpe) festeggiò i suoi 23 anni, poi fu il mio turno. Il numero perfetto della giovinezza […] Ci sentivamo pronti per i ’70. ‘È la nostra decade’, disse Robert”.
Un silenzio cala sulla Roundhouse, spezzato dall’intro al piano di Because the Night; stare seduti è impossibile. Il pubblico corre verso il palco; c’è qualcosa che lo guida verso quest’artista, per vederla da vicino, per rivivere la sua storia, che ha attraversato decadi, che si è intrecciata a quella di Robert Mapplethorpe, Sam Shepard, Allen Ginsberg, William Burroughs e Gregory Corso, in una New York in cui i sogni non erano infranti, ma reali. Il pubblico cerca di assimilare anche solo un frammento della vitalità di Patti Smith. Gli anni ’70 stasera sembrano così vicini e anche il presente, in fondo, non è così male.
Poi l’uscita d’obbligo e il ritorno sul palco con Jesse, Jackson e tutta la band: “Sono felice di poter cantare una canzone scritta da mio marito (Fred Sonic Smith) e suonata dai miei figli”. People have the Power, interpretata all’unisono dalla famiglia Smith, chiude la serata.
Era il 16 maggio 1976, quando il Patti Smith Group debuttò nel Regno Unito con un’infuocata esibizione alla Roundhouse. Tra il pubblico c’era Shirley O’ Loughlin, futura collaboratrice del gruppo punk al femminile The Raincoats, che definì la performance della Smith un momento che le cambiò la vita.
Quattro decadi dopo, nello stesso luogo, è questa sensazione a dominare i volti del pubblico, quando, inesorabilmente, le luci si riaccendono.
Photo credit: Roundhouse