Da “È stata la mano di Dio” fino a “The Tragedy of Macbeth”, il London Film Festival ha regalato grandi titoli.
In un anno decisamente difficile per il cinema come il 2020, che aveva visto la chiusura delle sale e la cancellazione di molti festival, tra cui quello di Cannes, il London Film Festival era riuscito a presentare la sua sessantatreesima edizione grazie ad un misto tra proiezioni online e in sala. Quest’anno, la manifestazione è tornata nelle sue vesti abituali, mantenendo alcuni screening online, ma riportando il pubblico nelle sale di Londra e in altre città del paese. La selezione di titoli offerta dal festival diretto da Tricia Truttle è stata impressionante; più di 200 film provenienti da paesi diversi, l’esclusiva mondiale di “The Harder They Fall” di Jeymes Samuel e l’anteprima europea di “The Tragedy of Macbeth”, primo film diretto da Joel Coen, senza l’abituale collaborazione del fratello Ethan.

Dal Festival di Venezia è arrivato il vincitore del Gran Premio della Giuria “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino; un film personale, visivamente più trattenuto rispetto ai precedenti lavori, ma di una profondità umana spiazzante. Il regista racconta la storia di Fabietto – che è poi lo stesso Sorrentino – ambientata nella Napoli degli anni ‘80. Il ragazzo sogna Maradona, ha un debole per la zia Patrizia, si sente solo, ma vive comunque una vita piacevole; fino a quando un evento tragico colpirà la sua famiglia e Fabietto dovrà cercare la sua strada senza l’aiuto degli adulti. E questa strada, il ragazzo la troverò nel cinema, perché come dichiara nel film Fellini -arrivato a Napoli alla ricerca di comparse – “il cinema è bello; è la realtà ad essere scadente”. Anche quando i film fanno riferimento alla realtà, come nel caso di “È stata la mano di Dio” e di “Belfast” diretto da Kenneth Branagh, riescono a trovare poesia tra la polvere del quotidiano. In “Belfast”, vincitore del premio del pubblico al Festival di Toronto, Branagh ritrae la sua infanzia nella capitale nordirlandese minacciata dagli scontri tra cattolici e protestanti. Rispetto al film di Sorrentino, “Belfast” si rifà ad un modo di narrare più classico e lineare, senza troppe sorprese, nonostante la coinvolgente scena iniziale in cui è mostrato l’inizio dei Troubles. L’opera è comunque un buon prodotto che riesce ad emozionare, anche grazie alla bellissima colonna sonora di Van Morrison.

Un altro film che vede protagonista una bambina è “Petite Maman” di Celine Sciamma, già presentato in concorso alla scorso Festival di Berlino. Qui, Sciamma fa un passo indietro rispetto al suntuoso “Ritratto di una donna in fiamme”, scegliendo immagini dirette e semplici che, con il procedere del film, mostrano una realtà diversa da quella che la regista sembra proporre in apertura alla pellicola. “Petite Maman” è la storia dell’elaborazione di un lutto dal punto di vista di una bambina, Nelly, che ha da poco perso la nonna. Se per certi aspetti il film potrebbe ricordare “Where The Wild Things Are” di Spike Jonze, Sciamma non fornisce però indizi per segnalare il passaggio tra realtà ed immaginario; nella dimensione sognata dalla bambina non ci sono creature fantastiche, ma quelle stesse persone che fanno parte della sua vita. C’è però un’idea sull’infanzia che è simile a quella del film di Jonze; i bambini riescono ad andare oltre la superficie e, attraverso la loro immaginazione, affrontano il dolore meglio degli adulti.

Certo, l’immaginazione non è sempre un rifugio su cui poter contare; cercare sollievo nei sogni può rivelarsi pericoloso, come nel caso della protagonista di “Last Night in Soho” diretto da Edgar Wright. Eloise vive in Cornovaglia con la nonna, ma sogna la Londra degli anni ‘60. Quando finalmente arriverà nella capitale per studiare moda, ne rimarrà delusa; inizierà così ad immaginare il periodo della Swinging London. I suoi sogni si trasformeranno presto in un incubo che le rivelerà una verità sugli swinging sixties lugubre ed inaspettata. Wright dirige un film che è, soprattutto nella prima parte, visivamente stupefacente nella ricostruzione della Londra dell’epoca, negli effetti speciali e in una regia che guarda a vecchi titoli ambientati nella capitale come “Repulsion”, “Peeping Tom” e “Frenzy”. Per quanto il pubblico sia ormai abituato a vedere un film attraverso i dispositivi più improbabili, “Last Night in Soho” ristabilisce il ruolo del grande schermo come esperienza inimitabile; vedere una pellicola visivamente così curata al cinema lascia lo spettatore in uno stato di eccitazione intossicante.

Lo stesso senso di eccitazione provocato dalla visione del documentario dedicato da Todd Haynes ai Velvet Underground: immagini frenetiche scorrono sullo schermo accanto ai volti di Lou Reed, John Cale, Moe Tucker e Sterling Morrison. La storia dei Velvets si dispiega davanti ai nostri occhi attraverso un linguaggio che sa di cinema sperimentale, accompagnato dalle note di “Sweet Jane”, “Heroin” e “I’m Waiting For The Man”. Sicuramente uno dei documentari musicali migliori di sempre.

In “Words without Music” Philip Glass spiega come certe immagini non provocherebbero lo stesso effetto in chi guarda, eliminando la musica che le accompagna; se questo è vero nel caso di molti film, lo è soprattutto in “The Power of the Dog” diretto da Jane Campion, dove la colonna sonora originale composta da Jonny Greenwood è essenziale nel creare l’atmosfera sinistra del film. Interpretato da Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst e Jesse Plemons, “The Power of the Dog” è un western atipico in cui si ritrovano alcune tendenze del genere, come la contemplazione di certi paesaggi, ma dove il cowboy interpretato da Cumberbatch è l’opposto del personaggio rassicurante a cui ci ha abituati John Wayne. In una delle sue performance migliori, Cumberbatch provoca tensione in ogni scena, spiazzando lo spettatore; è una figura inafferrabile, di cui fino alla fine non si comprendono chiaramente le intenzioni. Un grande ritorno per Jane Campion, che per questo film – tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Savage – ha vinto il Leone d’argento per la miglior regia al Festival di Venezia.

A chiudere il London Film Festival è stato “The Tragedy of Macbeth”; girato in un elegante bianco e nero, adottato con l’intenzione di porre in risalto il testo, il film diretto da Joel Coen è una pellicola che vive a metà tra cinema e rappresentazione teatrale. L’opera ha un sapore decisamente cinematografico nella regia, dagli eleganti raccordi attraverso nebbie, alle dissolvenze, ai primi piani, ad una macchina da presa che non si limita mai ad inquadrare, ma che sembra scavare dentro i personaggi. La dimensione teatrale del film rivive nei set minimali e negli interpreti- dai protagonisti Denzel Washington e Frances McDormand, fino ad Alex Hassell, Kathryn Hunter e Harry Melling – che si avvicina maggiormente al lavoro collettivo di una compagnia teatrale più che a quello di attori cinematografici. “The Tragedy of Macbeth” non è soltanto uno dei migliori adattamenti shakespeariani di sempre, ma anche uno dei titoli più belli visti quest’anno.

Quella vissuta al London Film Festival è stata per chi scrive un’esperienza diversa dal solito, non tanto a causa della pandemia che è ancora visibilmente tra noi, ma perché la manifestazione ha segnato il mio ritorno in sala dopo più di un anno di assenza. Non so giudicare se il mio entusiasmo per i titoli presentati sia stato influenzato dalla possibilità di vederli nel modo in cui tutti i film andrebbero visti, ovvero, sul grande schermo; quello di cui sono certa è che tornare in sala dopo un’assenza forzata, è stato come far ritorno a casa dopo un lungo viaggio. Un viaggio in cui mancavano emozioni che soltanto il grande schermo sa regalare.