Una storia ispirata a fatti realmente accaduti.
Qualche giorno fa un mio collega era in preda al panico: “Non trovo più il mio iPhone, non so cosa fare”. Dopo una serata che gli aveva lasciato sul volto i segni di un cospicuo hangover, lo smartphone poteva essere ovunque. Colpito dalla sfortunata vicenda, l’intero team di cui faccio parte era accorso in aiuto del malcapitato, ma nonostante le ricerche frenetiche, del telefono neanche l’ombra.
Con il passare dei giorni, la separazione forzata stava trasformando il collega in paranoico: “In treno mi sento come se fossi nudo, sembra che tutti mi osservino”.
In quello stesso periodo, stavo leggendo il saggio di Zadie Smith, Generation Why? in cui la scrittrice analizza il fenomeno Facebook. La Smith sostiene che la sua generazione (di cui facciamo parte anche io e il collega) si trovi intrappolata in una realtà fittizia, creata da uno studente di Harvard (Mark Zuckerberg) con tendenze sociopatiche. Poiché Zuckerberg era incapace di sostenere una normale vita sociale, aveva trovato rifugio in una virtuale ed erano stati in molti a seguirlo.
Dell’analisi della Smith, ciò che trovo preoccupante è la completa assuefazione tecnologica della mia generazione. Non solo Facebook è diventato specchio di ciò che siamo, ma la nostra vita è completamente dipendente dalla funzionalità di uno smartphone: “No one’s on the street, we moved it all online” canta sarcasticamente Alex Turner nel brano She Looks like Fun. Non ci vorrà molto, prima che la profezia di Turner diventi realtà.
Ma torniamo al collega. Il tempo scorre e del suo iPhone neanche l’ombra; la vicenda si è fatta talmente seria, che sulle sue tracce c’è persino la polizia. Quando non sembrano esserci più speranze, ecco arrivare la svolta. Una mattina lo incontro nella libreria del centro artistico dove lavoriamo, sul suo viso una tranquillità che non vedevo da giorni: “Non avendo il cellulare non so cosa fare durante la pausa” spiega “quindi, credo che comprerò un libro”. Più tardi sorseggiando un caffè, mi rivela qualcosa di ancor più inaspettato: “Sai, dopo molto tempo, ho realizzato un’illustrazione”.
Nel libro Clothes, Music, Boys, la musicista Viv Albertine scrive che dopo un intenso momento creativo, proviamo una sensazione di leggerezza e benessere. Riesco a rintracciare questa emozione negli occhi del collega: “Non avere un cellulare inizia a piacermi” mi informa soddisfatto.
Il mio collega è un illustratore e in passato ha realizzato locandine per festival cinematografici. Il suo talento stava per essere annientato da uno schermo e tante app. Non posso che essere felice per lui: è uscito da una dipendenza, di cui ho sempre il timore di diventare vittima.
Andando a casa noto che chiunque incontri, dai passanti alle persone in metro, ha il viso incollato sul display del proprio smartphone.
Mentre cammino, giungo a questa amara conclusione: quando compriamo un cellulare, in realtà è il cellulare a comprare noi.