Il musical di Stephen Sondheim torna nel West End in una nuova versione diretta da Marianne Elliott.
Nel Gielgud Theatre le luci si riaccendono. C’è chi si guarda attorno spaesato, chi si asciuga le lacrime dal volto e chi sorride. Il musical Company si è appena concluso e il pubblico sa di aver assistito a qualcosa di straordinario. L’opera di Stephen Sondheim e George Furth, andata in scena per la prima volta a Broadway nel 1970, è tornata nel West End in una nuova produzione, con la regia di Marianne Elliott.
Se l’ambientazione originale newyorkese è mantenuta, l’azione è trasportata al giorno d’oggi trasformando il protagonista Bobby in Bobbie, interpretata magnificamente da Rosalie Craig. Questo cambio di genere del personaggio principale, non solo risulta riuscito, ma dona al musical una risonanza contemporanea.
Bobbie vive a New York, sta per celebrare 35 anni ed è single. La Company del titolo è la compagnia di amici sposati, ma anche la compagnia che manca nella vita di Bobbie, quella data da una relazione. La vita matrimoniale degli amici è rappresentata da episodi tragicomici, che il set design di Bunny Christie racchiude nei rispettivi appartamenti, come a voler sottolineare la mancanza di spazi nel rapporto di coppia.
La vita coniugale non è infatti tutta rose e fiori; c’è chi pensa al divorzio, chi ha smesso di bere (ma solo in apparenza) e chi, come il personaggio interpretato dalla leggendaria Patti Lupone, ha già due mariti alle spalle. Di fronte agli amici Bobbie appare spaesata, non essendo sicura che questo stile di vita le appartenga.
Una serie di pezzi alimentano i dubbi della protagonista; la toccante Sorry-Grateful interpretata da Harry (Gavin Spokes), David (Richard Henders) e Larry (Ben Lewis) sottolinea l’ambivalenza del condividere la vita con qualcuno. Allo stesso modo, in uno dei brani più famosi del musical I’m not Getting Married Today, Jamie (Jonathan Bailey) è colto da una crisi, proprio il giorno in cui deve giurare eterna fedeltà al compagno Paul (nell’originale Amie e Paul).

Alla città di New York è dedicato uno dei momenti più belli del primo atto, Another Hundred People, in cui la Elliott colloca Bobbie e i suoi tre possibili compagni al centro del palco, mentre alle loro spalle la vita newyorkese scorre, tra le persone che escono ed entrano nella metropolitana. Se John Lennon diceva che la vita è ciò che accade mentre sei impegnato a fare altri progetti, nel caso di giungle urbane come New York, ma anche Londra, la vita sembra essere quello che succede tra i tanti spostamenti in metropolitana che scandiscono le nostre giornate e questa scena ne rende perfettamente il senso.
Nello scambio tra Bobbie e l’ex fidanzato Theo (Matthew Seadon-Young), in procinto di sposarsi con un’altra, viene rivelata la fragilità della protagonista, che confessa di aver pensato al matrimonio quando i due erano insieme. Theo ha però deciso di lasciare New York con una delle battute più significative di tutto il musical, “I believe there’s a time to come to New York and a time to leave”; come dire, questa vita non è per tutti e forse io ho smesso di sognare. Con il finire del primo atto, Bobbie confessa, in Marry Me a Little, di essere pronta per il grande passo, anche se desidera un rapporto in cui possa mantenere la sua libertà.
La tanto temuta festa di compleanno arriva nell’Entr’acte, un sogno/incubo in cui Bobbie, come una sorta di Alice in Wonderland, è perseguitata da festoni giganti e candeline che non si spengono. Nel secondo atto è il momento di Patti Lupone che con il brano The Ladies Who Lunch, ironizza sulle signore dell’alta società impegnate tra brunch e shopping. Se questo è l’addio al musical della diva, è sicuramente un gran finale.
Tra una proposta indecente e un flirt con un’insignificante assistente di volo, Bobbie è sempre più avvolta dai dubbi e gli amici non sembrano un esempio da seguire; a dimostrarlo l’ipocrisia a cui si piegano Susan (Daisy Maywood) e Peter (Ashley Campbell) che pur avendo divorziato, vivono ancora insieme. Dopo aver visto gli amici cedere a compromessi ed andare incontro a crisi nervose, Bobbie si chiede se è questo quello che deve aspettarsi dalla vita matrimoniale. Chi dice che le scelte degli altri siano giuste e le sue sbagliate?
Forse Bobbie non è come le coppie che conosce; incontrare qualcuno in una società che tende all’isolamento è difficile e scegliere una persona solo per paura della solitudine, non può funzionare. Bobbie desidera qualcuno che la faccia sentire viva, che la conosca anche troppo bene e che abbia bisogno di lei, per sopravvivere. Se il suo momento non è ancora arrivato, basta attendere, senza giudizi, o senza sentirsi giudicati, come capiscono anche gli amici nel finale.
Ed è proprio così che si conclude l’opera, senza festa di compleanno, ma con Bobbie sola sul palco che, spegnendo le candeline, esprime un desiderio. Come per deriderla una candelina rimane accesa, a ricordarle che in tutte le sue scelte ci sarà sempre qualcuno pronto a giudicare e ad offrire un’opinione, l’importante è non curarsene.
Dal 1970, Company è stato messo in scena numerose volte, ma questa nuova versione, nel sottolineare come il ruolo principale sia applicabile sia ad un protagonista maschile che femminile, offre qualcosa in più. Certamente oggi, una donna single di 35 anni viene giudicata in modo diverso rispetto ad un uomo. Ma se lo sguardo della società ci separa, qualcosa ci accomuna: siamo tutti esseri fragili alla ricerca di qualcuno che ci faccia sentire vivi.
© Foto Martina Ciani