Daniel Radcliffe e Alan Cumming sono protagonisti delle due opere di Samuel Beckett .
C’è qualcosa nell’inconsueto ritmo della prosa di Samuel Beckett che esercita lo stesso effetto angosciante provocato dall’osservare un dipinto di Francis Bacon: quei silenzi e attese tra una frase e l’altra possiedono la stessa potenza espressiva delle crude raffigurazioni di Bacon.
Per quanto si tenti di trovare un senso alle opere di Beckett, queste finiscono per non fornirlo, in quanto è la condizione umana stessa ad essere priva di significato. All’assurdità dell’esistenza, l’autore ha dedicato la sua intera drammaturgia: l’Old Vic mette in scena un double bill di cui fanno parte la meno nota “Rough for Theatre II” e la celebre “End Game”, entrambe interpretate da Daniel Radcliffe e Alan Cumming.
Due agenti (chiamati semplicemente A e B) intenti ad analizzare la vita di un individuo (C) che sta per uccidersi, sono i protagonisti di “Rough for Theatre II”. Qui Beckett fa convivere personalità totalmente opposte; se A (Radcliffe) è riflessivo ed attento a ricostruire i fatti con metodicità, B (Cumming) al contrario, è indeciso e mette in dubbio le teorie del collega. Entrambi i personaggi mancano però di compassione verso il malcapitato, denotando una disumana freddezza.

Cumming e Radcliffe tornano nella seconda pièce proposta, “End Game”, completata da Beckett nel 1957 e rilevante in quegli anni minacciati dalla guerra fredda, così come negli oscuri tempi attuali. I protagonisti, Hamm (Cumming) e Clov (Radcliffe), vivono in un’epoca non determinata in cui la natura sembra essersi scordata di loro, o peggio, ha cessato di esistere. Lo scenario apocalittico a cui viene fatta spesso allusione, rimane fuori dall’azione, circoscrivendo l’ambiente in cui i due sono intrappolati. Fin dall’apertura, Beckett presenta Hamm e Clov come sconfitti; sembrano “mosche che si contraggono, dopo che lo schiacciamosche le ha già spappolate” aveva osservato Adorno in un’analisi della pièce.
Nagg (Karl Johnson) e Nell (Jane Horrocks) sono tra le figure più desolate mai viste in un’opera teatrale: genitori di Hamm, trascorrono la loro esistenza in bidoni dell’immondizia. Nagg è però l’unico personaggio che tenta di portare una forma di consolazione, ma gli altri, rassegnati al loro destino, lo ignorano.
La regia di Richard Jones sceglie di evidenziare – soprattutto nella prima parte – il lato da black comedy del testo, servendosi degli scambi tra l’istrionico Cumming e il sottomesso Radcliffe. Come Vladimir ed Estragon in “Waiting for Godot”, i due, pur dipendendo l’uno dall’altro, si scherniscono continuamente.
Cumming, costretto dall’infermità e cecità del suo personaggio in una sedia a rotelle, si concentra totalmente sull’espressività del volto e su un estremizzato movimento di braccia e mani. Radcliffe traduce invece l’inquietudine di Clov attraverso una performance decisamente fisica: si sposta spesso da una parte all’altra della scena sorreggendo una scala con difficoltà (il suo personaggio è zoppo), che usa per raggiungere le finestre ed osservare l’esterno. Questa è l’unica forma di contatto tra i due e ciò che resta del mondo. Se in “Waiting for Godot” si ha l’incessante attesa di un personaggio che non giunge mai, in “End Game” Clov e Hamm attendono la fine, preannunciata minacciosamente da suoni metallici fuori scena.
Nell’analizzare il teatro di Beckett ci si concentra spesso sul pessimismo che caratterizza la sua drammaturgia; ad emergere da questa produzione di “End Game” è però la grande capacità dell’autore nel dipingere la condizione umana. Perché per quanto l’opera trasudi un’inequivocabile amarezza, ciò che sembra voler sottolineare è la caratteristica propria all’uomo di sopravvivere. “Sei sulla terra e non c’è nessuna cura per questo” sentenzia Hamm; l’unica soluzione possibile, nel bene e nel male, è andare avanti.