Le avventure del mago più famoso al mondo continuano nella spettacolare trasferta teatrale.
La crescita con le sue ribellioni, indecisioni e insicurezze; un momento talmente intenso di emozioni da dar vita, ogni volta che viene affrontato al cinema o in letteratura, ad opere che sono ormai parte del nostro immaginario: è il caso di The Catcher in the Rye, ma anche di Rebel Without a Cause, per citarne due.
Anche nella saga di Harry Potter, la scrittrice JK Rowling affronta temi legati all’adolescenza; se la serie è nota per la sua ambientazione fantastica, ad aver inizialmente attirato il pubblico è il ragazzo con gli occhiali raffigurato sulla copertina del libro. Non un supereroe, ma un ragazzino in cui tutti possono identificarsi. È questa capacità di immedesimazione ad aver reso Harry Potter un successo ed è questa stessa formula magica a far funzionare Harry Potter and the Cursed Child.
Partendo da una storia originale della Rowling, del drammaturgo Jack Thorne e del regista John Tiffany, il discorso è ripreso dal finale di Harry Potter and the Deathly Hallows, in quella piattaforma 9 ¾ che gli appassionati conoscono bene. Questa volta a salire sul treno per Hogwarts non sono Harry, Ron ed Hermione, ma i loro figli, Albus Severus Potter e Rose Granger-Weasley. Il percorso dei due, però, si divide quasi immediatamente: Albus fa infatti amicizia con Scorpius Malfoy, figlio di Draco, acerrimo rivale di Harry Potter. Della trama, non possiamo svelare molto, dato che il motto dell’opera è keep the secrets (mantieni i segreti); basterà dire che il cursed child del titolo non è chi pensiamo essere.
Colpi di scena totalmente inaspettati fanno sì che la storia, suddivisa in due parti, mantenga un ritmo serrato per tutta la durata: nella seconda parte in particolare, gli eventi si susseguono con drammatica rapidità, seguendo più un linguaggio cinematografico che i tempi dilatati del teatro.
Gli immancabili effetti speciali, con dissennatori, patronus e oggetti animati, non solo si rivelano all’altezza dei sette film, ma si contraddistinguono per una verosimiglianza che al cinema è perduta. I vecchi effetti illusionistici cari a Mèlies potranno risultare ormai sorpassati sul grande schermo, ma qui appaiono più autentici dei trucchi privi di poesia generati dalle intelligenze artificiali.
John Tiffany muove i suoi attori tra foreste proibite, scale che si spostano e laghi stregati; il proscenio del palco non delimita l’azione che, in certi momenti, si estende fino alla platea. Brevi coreografie, scandite dalla musica di Imogen Heap, fanno da entracte tra alcune scene, con mantelli che si levano in aria e bacchette scintillanti.
Jamie Ballard è un Harry Potter adulto ancora avvolto dalle insicurezze, Thomas Aldridge dà volto ad un divertente Ron e Franc Ashman è la risoluta Hermione. Se le interpretazioni dei tre convincono, quelle di Ryan J Mackay nei panni di Albus e di Jordan Bamford in quelli di Scorpius, conquistano lo spettatore. I due giovani attori, protagonisti di alcuni degli episodi più intimi dell’opera, con i loro volti fragili e confusi, si aggirano nei ricordi del nostro vissuto.
Harry Potter and the Cursed Child funziona nella sua veste teatrale perché racconta una grande storia; ciò che resta, sottraendo la magia e gli incantesimi, è una riflessione sulla crescita che non si limita all’adolescenza. Harry Potter deve affrontare le difficoltà dell’essere genitore, cercando di rapportarsi ad un figlio dal quale si sente estraniato. Il mago più famoso al mondo è ormai adulto, ma è confuso almeno quanto Albus.
Quando possiamo ritenerci cresciuti? Nel momento in cui dalla vita non abbiamo più niente da imparare. Questo, come suggerisce l’opera, non accade mai. Neanche nel magico mondo di Harry Potter.
© Foto Martina Ciani