I film di Federico Fellini sugli schermi del British Film Institute

Nei mesi di gennaio e febbraio, il BFI celebra il centenario dalla nascita di Fellini con una rassegna comprensiva dei suoi film.

Al BFI di Londra si celebra Federico Fellini: a suggerirlo è un poster con l’inconfondibile immagine di Anita Ekberg che adorna il foyer dell’istituto. Tra le tante proiezioni previste in occasione del centenario dalla nascita del maestro, non può mancare, naturalmente, La dolce vita: il film che fu fenomeno, che alla prima di Milano causò fischi e proteste, e che oggi è considerato un capolavoro del cinema italiano. Avevo già visto La dolce vita anni fa, ma la proiezione al BFI mi ha permesso di riscoprirlo, percependo nuovi dettagli, sensazioni e significati. In fondo, se non lo si è visto sul grande schermo, un film non lo conosciamo mai veramente.

E così mi sono immersa in questo affresco della società e dei suoi costumi che – come ha dimostrato Paolo Sorrentino ne La grande bellezza – oggi non sono poi così diversi. Se ad essere cambiata è la colonna sonora, i vizi sono gli stessi.

Nel girone dei dannati de La dolce vita, Fellini mette a fuoco le debolezze umane: ne è esempio l’episodio incentrato sul fanatismo religioso, con i due bambini che sostengono di aver visto la Madonna e la folla isterica che li segue, vittima di un irrisorio incantesimo. È la spettacolarizzazione e il sensazionalismo degli eventi dato dai giornali e dai paparazzi (termine nato proprio con questo film), privi di qualsiasi forma di rispetto. L’unica legge che conoscono è lo scandalo, l’unico potere a cui obbediscono è quello del denaro.

La dolce vita del titolo è quella vissuta sui rotocalchi, un’esistenza fatta di piaceri carnali e superflui, che non entrano in contatto con l’anima di un uomo. Il giornalista Marcello (Mastroianni), motivato un tempo da ambizioni letterarie, si aggira in questa sorta di eterno carnevale con l’aria falsamente sicura e in realtà malinconicamente smarrita: passa una notte nella casa di una prostituta con l’annoiata Maddalena (Anouk Aimée), si lascia travolgere dalla statuaria bellezza di un’attrice americana e partecipa ad un numero infinito di feste, simbolo della vuotezza borghese.

Fellini girò La dolce vita nel 1959, quando Roma si trovava protagonista della così detta “Hollywood sul Tevere”. In quegli anni, numerose produzioni americane scelsero gli studi di Cinecittà per i loro film, portando nella capitale le star della mecca del cinema. Ma l’universo frequentato da Marcello non è quello glitterato degli attori hollywoodiani; il suo è per lo più popolato da starlet sulla via del tramonto e personaggi di poca importanza, fatta eccezione per Sylvia, la diva protagonista della celeberrima sequenza della fontana di Trevi.

Nell’episodio in cui gli fa visita il padre, Marcello tenta di spiegare l’origine della disillusione che lo caratterizza: “Io mio padre non lo conosco”. La mancata presenza di una figura fondamentale potrebbe esser causa del disorientamento di Marcello e della difficoltà che incontra nello stabilire un rapporto normale con la compagna.

L’intellettuale Steiner è l’unico, agli occhi del protagonista, ad essersi salvato dalla degenerazione collettiva. Steiner è però turbato dall’andamento del mondo e ammette che dietro all’apparente vita ideale che conduce, si cela un uomo fragile. È la sua morte a segnare il totale declino di Marcello; con il suicidio di Steiner, non gli resta niente in cui credere.

Nella scena finale viene ritrovato un mostro marino su una spiaggia. Marcello, reduce dall’ennesima festa degradante, lo vede. Poco distante da lui, una ragazzina – che il protagonista aveva incontrato in precedenza – lo chiama per salutarlo. Marcello non riesce a sentirla perché il rumore delle onde copre le parole della giovane. Come nella conclusione de La strada, il mare, elemento ignoto e misterioso, non porta risposte. Marcello è perduto e non c’è più possibilità di far ritorno all’innocenza di un tempo.

Di tono diverso rispetto a La dolce vita, ma non distante nella satira della società italiana, è il secondo film visto all’interno della rassegna, Ginger e Fred. Qui Marcello Mastroianni e Giulietta Masina si incontrano sullo schermo per la prima volta, in un racconto a metà tra comico e nostalgico. Fellini si serve della storia di due ballerini imitatori di Ginger Rogers e Fred Astaire – che vengono invitati a riproporre il loro numero in una ridicola trasmissione tv -per mostrare ancora una volta lo stato decadente dell’Italia, travolta da un mare di spettacoli privi di gusto.

Come ne La dolce vita, a far da palcoscenico al degrado culturale è ancora una volta Roma, dove spaventose pubblicità troneggiano nella stazione Termini e la spazzatura si accumula ai lati delle strade. Ma l’immondizia non è soltanto quella reale per le vie della città; la spazzatura è soprattutto quella proposta dalla tv, che trasmette costantemente programmi rozzi e scadenti. La televisione è ovunque: negli autobus, nelle reception degli alberghi e nelle stanze da letto. Le giornate degli italiani sembrano scandite dalla telecronaca di una partita di calcio – che gli impiegati di un hotel seguono religiosamente – o da un canale che propone musica inascoltabile.

È in questo panorama che si ritrovano Amelia e Pippo, rappresentanti di una generazione (quella di Fellini) ormai invecchiata, che in questo circo imbarazzante si sente estranea. Lo spettacolo a cui i due devono prendere parte è un calderone di quanto più ridicolo si possa agglomerare: improbabili sosia, protagonisti di storie assurde e ciarlatani, come il frate che afferma di compiere miracoli e la signora capace di contattare l’aldilà. Amelia e Pippo provengono da un’epoca in cui intrattenere significava portare di fronte al pubblico qualcosa di unico, come un sofisticato Tip Tap ispirato da due grandi ballerini americani. Con la televisione invece, tutto è diventato spettacolo.

La bellezza sembra essere scomparsa dalle vite degli italiani, costretti dalla tv dittatrice a spezzare il flusso continuativo di un film con grottesche pubblicità. In un’intervista Fellini definì la réclame “un nuovo tipo di cataclisma, come la lava che distrusse Pompei”. E così il regista inserisce nella narrazione di Ginger e Fred, invadenti advertisement estremizzati dalla sua indole per il surreale: è un attacco alla televisione ignorante e maleducata di Berlusconi che in quegli anni acquistava sempre più favore. Fellini è lungimirante nel prevedere i programmi spazzatura che domineranno i canali dell’etere nella decade successiva e che spopolano ancora oggi.

Oltre a rappresentare un’amara critica nei confronti della società, Ginger e Fred fornisce una riflessione sul passare del tempo e su come questo comporti una forma di alienazione per le generazioni passate. Contrariamente al finale de La dolce vita però, Fellini propone un’alternativa positiva: in mezzo al lerciume televisivo è ancora possibile ricercare la bellezza e l’eleganza. Queste sono riconoscibili nel toccante balletto finale di Amelia e Pippo, di cui il regista sembra servirsi per ribadire la sua posizione nell’arte cinematografica: anche se affaticato e non più considerato al passo coi tempi, Fellini continuerà ad andare avanti. E lo farà ancora, l’anno successivo, con Intervista e in seguito con La voce della luna, titolo di commiato di uno dei più grandi visionari della macchina da presa.

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