Il nuovo film del regista di Moonlight tratto dal romanzo di James Baldwin.
Tradurre la parola scritta in linguaggio cinematografico non è mai un’operazione facile; se poi le parole sono quelle di James Baldwin, allora la sfida sembra quasi insormontabile. Non riesco ad immaginare una riduzione cinematografica di Giovanni’s Room o Another Country, anche se dai romanzi di Baldwin sono già stati tratti due film (rispettivamente da Go Tell It To the Mountain e Where the Heart Is) e un documentario, I Am Not Your Negro. La pellicola, diretta da Raoul Peck, partiva dagli appunti di un romanzo che Baldwin intendeva realizzare, Remember This House, per tracciare un profilo su quello che è stato uno degli scrittori più impegnati nella lotta per i diritti civili.

In If Beale Street Could Talk è Barry Jenkins ad approcciare l’opera di James Baldwin, facendo uso di un linguaggio dilatato che ricorda il Wong Kar-wai di In the Mood for Love e che si adatta perfettamente all’andamento sincopato – caratterizzato da un graduale divenire – della scrittura di Baldwin. Nei libri dell’autore newyorkese, è come se lo svolgersi dei personaggi procedesse secondo un ritmo dettato dal sassofono di John Coltrane: elegante, misterioso e prolungato.
Al centro del film c’è una storia d’amore spezzata dall’ingiustizia. Fonny (Stephan James) e Tish (KiKi Layne) si amano fin da ragazzini, ma il sogno di un futuro insieme si spegne quando Fonny viene accusato di una violenza sessuale che non ha commesso; è la vendetta di un poliziotto razzista. Nel film convivono due piani narrativi; il presente in cui Tish aspetta un figlio da Fonny, che sta scontando la pena in carcere e il passato, in cui le immagini raccontano l’origine dell’amore tra i due protagonisti.
Riproponendo un linguaggio simile a quello utilizzato in Moonlight, Jenkins mette a punto una regia in cui prevalgono lunghi primi piani su Tish e Fonny; quella del regista è una poetica del silenzio dove gli sguardi diventano più potenti delle parole. La storia d’amore dei due protagonisti è narrata attraverso i loro volti, consci dell’ingiustizia subita, ma sovrastati da un destino mai favorevole. Nelle immagini in cui viene ricreata la Harlem degli anni ’70, il colore assume una funzione diegetica, con toni accesi e vibranti che diventano però scuri e torbidi quando Tish e Fonny sono separati.

In un film in cui i dialoghi lasciano spazio agli stati d’animo, la sequenza in cui la madre di Tish (interpretata da Regina King, giustamente premiata con l’Oscar) si reca a Porto Rico per incontrare la donna che ha accusato Fonny, raggiunge un’intensità drammatica che aleggia come uno spettro nella nostra coscienza.
Fin dall’inizio della pellicola, per Fonny non c’è molta speranza e le parole di Martin Luther King – che, nel 1963 dalla prigione di Birmingham, scriveva di non poter più sopportare i soprusi dei poliziotti bianchi ai fratelli di colore – echeggiano durante la visione. Purtroppo, quello che Baldwin racconta nel romanzo del 1974 è facilmente riconducibile al presente; se molto è cambiato, l’intolleranza rimane un male difficile da estirpare.
Quello di Jenkins era un film necessario, così come lo è la scrittura profetica di James Baldwin. Quando le nostre coscienze sono scosse e i nostri animi turbati da un mondo in cui non ci riconosciamo più, quello che possiamo fare è credere che un’armonia della diversità sia possibile. Come avviene nella colonna sonora del film, dove in brani dal sapore jazz compaiono violini classici; questa dissonanza diventa tutto ciò di cui abbiamo bisogno.
Photo credit: IndieWire