La smisurata preghiera di Nick Cave

In “Idiot Payer” Nick Cave si esibisce in versione solista nel vuoto di Alexandra Palace.

Chi ha avuto la fortuna di assistere ad un live dei Bad Seeds è consapevole di quanto, negli ultimi anni, il pubblico sia diventato fondamentale per Nick Cave. Colui che era conosciuto come l’antieroe del rock, il predicatore pazzo che voltava le spalle ai presenti, si è gradualmente trasformato in un performer raffinato alla continua ricerca di contatto umano. Se la ragione principale alla base del cambiamento è stata la morte del figlio Arthur nel 2015, già nel film 20,0000 Days on Earth (uscito nel 2014), Cave spiegava la metamorfosi a cui stava andando incontro sul palco: “Durante un live divento la persona che volevo essere e all’audience succede la stessa cosa”. La violenza dei concerti dei Birthday Parthy e della prima fase dei Bad Seeds apparteneva ormai al passato.

Un passato sonoro che, nelle apparizioni recenti, convive con il repertorio attuale senza dissonanze; a brani maledetti come The Mercy Seat e Stagger Lee si alternano le struggenti Distant Sky e I Need You evitando effetti stranianti. Cave riesce a far abitare nella stessa dimensione le realtà musicali più disparate nello stesso modo in cui nei testi contrappone da sempre immagini sacre e profane. Il dualismo alla base della sua poetica trova ragione d’esistere anche dal vivo; dal nichilismo della prima fase, i concerti dei Bad Seeds sono diventati vere e proprie celebrazioni che si chiudono con Cave circondato dalla folla estatica. Per questo motivo, ritrovare il musicista nella solitudine di Alexandra Palace in Idiot Prayer è inizialmente spiazzante.

Quando avevamo incontrato Cave sullo schermo per la prima volta, nel già citato 20,000 Days On Earth, ci aveva invitato a scomporre i frammenti della sua vita interiore, mentre durante una seduta psichiatrica raccontava come, a soli 12 anni, l’aver ascoltato il padre leggere Lolita lo avesse inevitabilmente segnato; ne avevamo rivisitato il passato, dall’adolescenza in Australia, alla prima band Boys Next Door, passando per i Birthday Party, fino ai Bad Seeds.

A questa insolita biografia era seguito One More Time With Feeling, inizialmente concepito in supporto all’album Skeleton Tree, ma divenuto, dopo il lutto di Cave, una risorsa per affrontare l’inimmaginabile: “Io e Susie (la compagna) eravamo come uccelli intrappolati, non potevamo muoverci. Il film ci ha liberati”. In seguito all’uscita di One More Time With Feeling in molti avevano ringraziato Cave per aver condiviso la sua esperienza; questo lo aveva spinto a rafforzare il contatto con il pubblico nella serie Conversations, dove appariva in versione solista, rispondendo alle domande dei presenti, e rivisitando alcuni brani al piano; l’approccio minimale ai pezzi aveva fortemente colpito Cave, tanto da decidere di registrarli nelle loro nuove vesti. Il progetto, come il tour mondiale dei Bad Seeds, era stato però fermato dalle restrizioni del lockdown.

Idiot Prayer è quindi la naturale evoluzione di Conversations e il culmine dell’ultima fase di Nick Cave, quella in cui la musica diviene un mezzo per avvicinarsi al prossimo e liberarsi dal dolore. Anche questa esibizione, per quanto priva di pubblico, prende il sapore di rito collettivo; le canzoni abbattono la distanza che ci separa da Cave, annientano il male che impedisce di essere presenti nell’incanto di Alexandra Palace, rendendoci parte di un evento irripetibile.

Spinning Song, letta in voice-over, apre un set che si concentrerà principalmente sui testi; la reinterpretazione solista di brani che vengono normalmente eseguiti con i Bad Seeds, permette di visualizzare in dettaglio i personaggi e i luoghi che popolano l’universo creato da Cave; un universo abitato da buoni, brutti e cattivi, che si delinea gradualmente e si apre alla nostra esplorazione, mentre le mura di Alexandra Palace, impregnate di storie musicali, osservano taciturne lo svelarsi del processo. Quello di Cave è un immaginario bagnato dal crepuscolo, che non appartiene né alla luce, né all’oscurità, ma risiede in quel breve attimo tra le due dimensioni. Nell’immensa sala c’è solo Cave; è quanto basta per riempirne le superfici e renderla straripante di vita.

Nei live, il musicista ha sempre dato l’impressione di incarnare un ideale incontro tra Iggy Pop e Leonard Cohen; se con i Bad Seeds le due personalità apparivano sul palco con la stessa frequenza, in Idiot Prayer è il Cave vicino al cantautore canadese a manifestarsi con più decisione, anche se l’ex Stooges fa la sua comparsa nella fulminante interpretazione di The Mercy Seat, ipnotica come un sortilegio di magia nera. Nella parte finale è il Cave legato al lirismo a prevalere, quello che con due brani – Into My Arms e The Ship Song – arriva dritto al cuore. Le note che sgorgano direttamente dalle sue mani ricordano come, anche in momenti dominati dalle tenebre, l’essere umano sia capace di creare una bellezza eterna: l’esecuzione intima, antitesi del clamore evocato nei concerti dei Bad Seeds, regala un momento fuori dal tempo, dal caos, dove ad esistere è soltanto la musica.

Come un cowboy dopo la conclusione di un duello, Cave volta le spalle alla macchina da presa, abbandonando la scena senza dire una parola. Non ne ha bisogno: per lui, hanno parlato le canzoni.

error: