LFF 2019: Intervista a Pietro Marcello, regista di Martin Eden

Abbiamo incontrato Pietro Marcello in occasione della presentazione di Martin Eden al London Film Festival.

In un panorama cinematografico come quello italiano, dove risulta spesso difficile incontrare una voce che si distingua dalle altre, Pietro Marcello è sicuramente uno degli autori più originali. Il suo cinema, distante dai canoni predefiniti dell’industria, vive attraverso la forma documentaristica e la magnificazione del territorio rurale italiano. Marcello porta sullo schermo le sue storie guardando alla pittura e a quella dei Macchiaioli in particolare, servendosi di un’elegante grazia poetica.

Attivo da molti anni, il regista ha realizzato una serie di documentari (La Baracca 2005, Il passaggio della linea 2007, La bocca del lupo 2009, Il silenzio di Pelešjan 2011), arrivando al primo lungometraggio narrativo nel 2015 con Bella e perduta.

Presentato in concorso al Festival di Locarno, Bella e perduta è un racconto quasi favolistico e con rimandi alla commedia dell’arte. Attraverso un linguaggio a metà tra cinema vérité e surrealismo, Marcello mostra la storia del pastore Tommaso Cestrone, custode volontario della Reggia di Carditello. Alla vicenda di Cestrone è intrecciata quella di un bufalotto di nome Sarchiapone, a cui il pastore vorrebbe salvare la vita.

È con Martin Eden, presentato in concorso allo scorso Festival di Venezia che Marcello conquista critica e pubblico. Tratto dall’omonimo romanzo di Jack London, Martin Eden narra di un giovane marinaio che raggiunge l’emancipazione sociale attraverso la cultura. Marcello trasporta la vicenda di Martin nella Napoli della prima metà del Novecento, dove il socialismo sta prendendo campo e gli operai sono in sciopero.

La pellicola, per il suo linguaggio sperimentale e anticonvenzionale, è stata tra le più apprezzate a Venezia, dove Luca Marinelli ha vinto la Coppa Volpi per l’interpretazione del personaggio principale.

Abbiamo avuto modo di intervistare Pietro Marcello in occasione della presentazione di Martin Eden al London Film Festival. Nel corso della discussione, il regista ha approfondito i temi del film, ha spiegato il suo legame con il documentario ed offerto un’opinione sui festival cinematografici.

Luca Marinelli in una scena di Martin Eden.

Siamo rimaste molto colpite dal tuo film e la scena in cui Martin riceve la conferma per la pubblicazione di una storia, ci emoziona particolarmente.

Quella è la parte centrale del romanzo e anche del film. Martin dice che la strada è fatta e pensa che gli si apriranno nuove possibilità. Ma quel momento segna anche la sua fine, la sua condanna.

Hai dichiarato di aver letto Martin Eden di Jack London 20 anni fa per la prima volta; perché hai deciso di fare il film proprio ora?

Lo sceneggiatore, il mio amico Maurizio Braucci, mi ha fatto leggere il romanzo e dopo 20 anni lo abbiamo sceneggiato. Quando l’ho letto ero ancora molto giovane e facevo tanti mestieri. Ero appassionato di cinema e lo studiavo da autodidatta, però non ero ancora pronto per affrontare un progetto del genere. Martin Eden è il libro degli autodidatti per eccellenza, di chi si fa da solo. Forse a quel tempo ero più tenace ma avevo meno esperienza, oggi invece, ho più esperienza e meno tenacia. Dopo 20 anni, abbiamo deciso di fare il film, di cui sono anche produttore e ho avuto la forza di realizzare un progetto con un budget più consistente.

Abbiamo letto che preferisci avere budget più limitati perché permettono una maggiore libertà espressiva.

Quello che mi interessa è che ci sia una necessità in quello che faccio, il cinema per intrattenimento non mi piace e ne sono orgoglioso; se ho qualcosa da dire lo dico, altrimenti faccio altro. Il cinema ha bisogno di essere uno spunto. Per me il libro di London è un romanzo di educazione sentimentale, così come lo è il film. Nel realizzarlo ho pensato alla grande storia e anche ai giovani; il mio obiettivo era raggiungere i giovani, poi è opinabile se ci sia riuscito o meno, questo sarà il tempo a deciderlo.

In Italia il film è stato accolto bene e siamo riusciti a venderlo in giro per il mondo. Nel Regno Unito ho un bravissimo distributore (Robert Beeson di New Wave Films) di cui sono molto felice, perché ha distribuito titoli eccezionali a cui sono molto affezionato. È la prima volta che ho un distributore inglese e che porto un film al London Film Festival e ne sono orgoglioso. Anche se per Martin Eden avevo un budget più ampio, rimane comunque un film indipendente perché realizzato dalla mia società di produzione L’Avventurosa, con cui ho girato tutte le mie opere. Questa è l’evoluzione naturale del mio cinema.

Hai anche un distributore americano?

Sì, Kino Lorber di Experience Cinema; il film è stato presentato e accolto bene anche al New York Film Festival. A Toronto abbiamo ottenuto il premio Platform, mentre a Venezia hanno premiato il nostro “principe” Luca Marinelli con la Coppa Volpi.

I film vanno fatti riposare, nella storia del cinema ci sono titoli che hanno vinto il Leone e poi sono stati dimenticati. Altri sono stati maltrattati e in seguito sono diventati oggetti di studio, entrando a far parte della storia del cinema.

In merito ai premi, comunque, non si deve essere troppo competitivi, perché la competizione crea molti limiti. Io sono per una visione un po’ più mutualistica, devi guardare anche all’altro e non solo a te stesso. Ho fatto un film contro un eroe negativo e il suo individualismo: Martin non ha nessun rapporto con la realtà perché è concentrato solo su se stesso, è una sorta di rock star moderna. La sperimentazione alla base di Martin Eden è quella di attraversare il ‘900 e far convivere il cinema popolare con quello sperimentale.

Carlo Cecchi (Russ Brissenden) e Luca Marinelli.

Una frase, detta dal personaggio di Maria a Martin, ci ha particolarmente colpito: Io non sogno come te, io guardo alla realtà.

Maria è la figura più positiva, perché rappresenta il matriarcato, la vedova e la famiglia. È una donna forte, una ragazza madre con due figli; io provo grande ammirazione per l’attrice che la interpreta, Carmen Pommella, e per la figura sacrifica che il personaggio rappresenta. Maria è la solidità e il sacrificio, senza di lei la storia di Martin Eden sarebbe un disastro totale.

La gente non è più abituata ai sacrifici: prima erano parte della vita quotidiana, mentre oggi non sono così diffusi. Per me il sacrificio è un valore aggiunto, non una cosa negativa. Maria è l’unica figura a credere in Martin e per questo l’aiuta; lui è un ragazzo che si fa da solo, da giovane diventa uomo e si riscatta attraverso la cultura. Allo stesso tempo però diventa vittima dell’industria culturale, perché non riesce a controllarla. C’è questo finale in cui Martin insegue se stesso: si rivede dalla finestra quando era giovane e si insegue perché vorrebbe tornare a quello che era prima. Questo però non è possibile, perché non è più quello di una volta.

Sei particolarmente legato al documentario e anche in Martin Eden inserisci immagini di repertorio. Cosa ti attrae della forma documentaristica?

Per me il documentario è uno strumento del cinema, poi dipende dall’uso che ne fai. Mi ha insegnato a montare in macchina, ad affrontare l’imprevisto ed è grazie a questo che ho imparato a lavorare sul set.

Sul set di un film tutto si basa sull’economia e se sbagli la paghi cara. Grazie all’esperienza del documentario mi sono fatto le ossa e ho imparato tanto. Avevo un ottimo aiuto regia, però alla fine ci sono momenti in cui devi saper scegliere; a volte montavo il girato anche in macchina per fare prima. La gente non capiva cosa facessi, ma io continuavo per la mia strada perché sapevo che dovevo finire la scena.

Jessica Cressy (Elena Orsini) e Luca Marinelli.

In conferenza stampa a Venezia, Luca Marinelli ha dichiarato che per questo film avete fatto delle prove quasi teatrali. In questo senso, hai mai pensato di cimentarti con il teatro?

Io non credo molto nella scrittura, perché nel cinema rimane incompleta, in quanto si ha la trasposizione filmica. Per Martin Eden abbiamo preparato le scene insieme agli attori e mentre provavamo cambiavo la scrittura del film e dei dialoghi.

Un tempo, il teatro era popolare, ora è nobile e borghese, al contrario del cinema che è rimasto del popolo. Diversamente dalla scrittura e scultura per esempio, il cinema è un’arte spuria, collettiva, che attinge da tutte le altre arti. Al momento comunque, non sono interessato a fare teatro, anche se mi affascina molto l’opera.

In un’intervista hai detto una frase con la quale ci troviamo totalmente d’accordo: Un film può anche essere imperfetto, l’importante è che abbia un’anima. Recentemente, hai visto un film che ti ha colpito?

Ultimamente non ho visto molti film, perché quando giro non voglio essere influenzato. Amo il cinema in generale; probabilmente uno dei miei film preferiti è Viburno Rosso di Vasiliy Shukshin, che sembra girato in famiglia, ma che amo perché ha un forte sentimento.

Non credo nel cinema strutturalista, fatto a tavolino, ma nell’aspetto alchemico del fare cinema, dove esiste l’imprevisto. Mi piace girare in pellicola perché sono operatore di macchina; vedere quello che abbiamo girato mi emoziona. Nella vita c’è bisogno dell’emozione, altrimenti troppo cinismo e controllo fanno male.

L’idea di non avere sorprese mi annoia, sono contro l’idea che l’industria decida cosa la gente debba vedere; c’è bisogno di uno slancio per affrontare un tema in modo diverso. Questo film ha un budget, ma alla fine abbiamo lavorato come volevamo.

La differenza tra autore ed esecutore è che quest’ultimo non ha identità, non ha un proprio stile, mentre il primo sa sbagliare e rialzarsi. L’imprevisto porta sempre qualcosa; io sono fortunato perché ho accanto Maurizio Braucci, sceneggiatore e socio dell’Avventurosa che è la mia famiglia del cinema. Insieme continuiamo a sognare, dicendo “No, non ci sto. Non sono come voi e non voglio esserlo”.

Martin Eden è un eroe negativo, mi dissocio completamente dal personaggio e da quello che diventa.  Lui non riesce a controllare il successo e il suo individualismo, non ha più rapporto con la realtà e soprattutto, tradisce la sua classe di appartenenza che è qualcosa di terribile.

Una delle immagini finali di Martin Eden.

Martin Eden è stato presentato a Venezia per poi partecipare a Toronto e New York, fino ad arrivare al London Film Festival. Secondo te, nell’era delle piattaforme di streaming come Netflix e Amazon, i festival del cinema resteranno rilevanti?

I cineastici hanno una responsabilità enorme perché in ogni momento si chiude un cinema. Dovrebbe esserci una battaglia contro la chiusura delle sale, molti però ignorano questa realtà. Riguardo alla piattaforma di Netflix, io non la uso, non ho neanche la televisione, le ultime serie televisive che ho visto sono Heimat (Edgar Reitz) e Berlin Alexanderplatz di Rainer Werner Fassbinder.

Prima di diventare regista hai mai partecipato ad un festival da spettatore?

La prima volta che sono stato a Venezia avevo 21 anni e la ricordo come un’esperienza bellissima. Oggi credo che dovrebbe esserci più accesso per i giovani e tutti in generale, non solo per gli addetti ai lavori. I festival sono belli quando c’è la condivisione.

Quando ho del tempo libero vado nei mercati, perché mi piace stare in mezzo alla gente, guardo le persone e le facce. Ho una passione per i mercati perché mostrano com’è il mondo: è un bel modo per fare qualcosa di normale che fa parte della vita quotidiana.

Un’ultima domanda, che è poi una nostra curiosità. Se potessi scegliere un qualsiasi altro romanzo per farne un film, quale sarebbe?

Difficile da dirsi, probabilmente un romanzo di Georges Simenon.

Martin Eden è uscito nelle sale italiane lo scorso 4 Settembre. Dal 16 al 25 ottobre la Cineteca di Bologna propone un omaggio al cinema di Pietro Marcello.

© Foto copertina Martina Ciani

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