Il film, incoronato agli scorsi Oscar come migliore dell’anno, è una spietata satira sulla società contemporanea.
C’è una sequenza in “Parasite” di Bong Joon-ho che riassume con maestria il tema della divisione tra classi affrontato dal regista: un’incessante pioggia cade su Seoul; la famiglia Kim – che vive in un seminterrato nella parte povera della città – è costretta a lasciare l’abitazione per passare la notte in una palestra, insieme agli altri colpiti dal disastro. Se l’alluvione segna drasticamente i Kim, per la famiglia Parks – che abita in una villa nell’area borghese della capitale – la pioggia è qualcosa di positivo, che “spazza via i cattivi odori” e a cui segue un bellissimo cielo azzurro.
È una scena dove la separazione nella scala sociale tra le due famiglie si fa ancora più netta, preludio al drammatico finale in cui si scatena l’orrore, generato dalla disperazione e dalla perdita di dignità. Tra i due mondi non c’è possibilità di dialogo se non attraverso la violenza e non c’è comprensione perché a mancare è una qualsiasi forma di comunicazione.
Anche se la vita dei Parks appare dettata da valori effimeri, i Kim vedono nel loro benessere un ideale a cui arrivare a tutti i costi; non importa se per farlo è necessario agire con slealtà e sorridere pugnalando alle spalle. Inserirsi – come parassiti appunto – nella casa dei Parks non è abbastanza: i Kim aspirano a prendere il loro posto perché convinti che tra le mura di quella villa perfetta si nasconda la felicità.
“Parasite” mette in mostra i lati più infimi dell’uomo e ne esplora la capacità di agire malvagiamente. È un film cupo, in cui non siamo portati a simpatizzare con nessuno dei personaggi, ma piuttosto a rammaricarci per come la società moderna ci ha trasformati: esseri senz’anima che regrediscono ad uno stato privo di morale.
Joon-ho utilizza un linguaggio dal tono satirico – di cui fu maestro Buñuel- per mostrare il graduale incontro/scontro tra i Kim e i Parks. È un tipo di narrazione già visto in pellicole che criticavano ferocemente la società contemporanea come “Mother!” di Darren Aronofsky e “Get Out” di Jordan Peele. L’inventiva di Joon-ho regala però una serie di colpi di scena che diventano strumento per un’efficace contaminazione tra generi: dalla black comedy, al thriller, fino al poetico epilogo.
“L’uomo riuscirà a vivere soltanto quando si libererà dal peso del denaro” scriveva D.H. Lawrence nel 1928; oggi, la visione dell’autore è ancora lontana e forse la distanza tra borghesia e working class è diventata incolmabile. Per questo motivo, l’Academy, che agli scorsi Oscar ha incoronato “Parasite” come miglior film dell’anno, ha dimostrato coraggio: anche se ambientata a Seoul, la pellicola di Bong Joon-ho affronta un tema applicabile a qualsiasi società.
Gli Oscar ci hanno ricordato come un film non sia soltanto oggetto di mero intrattenimento, ma possa anche aspirare ad instaurare un discorso con lo spettatore. I tempi stanno cambiando e come già successo in passato, il cinema – con il suo eterno sguardo sul mondo – ne prende atto.