È un momento difficile per il settore artistico e quello teatrale potrebbe essere tra i più colpiti dalle conseguenze del Coronavirus.
Temporarely closed, due parole che ricorrono da mesi nella scena artistica londinese: durante il periodo del lockdown il panorama culturale della città ha subito una battuta d’arresto senza precedenti, e la possibilità che molte istituzioni vadano incontro alla chiusura si fa sempre più concreta. Tra i settori maggiormente a rischio c’è quello teatrale che, senza un supporto finanziario da parte del Governo, potrebbe riscontrare perdite significative, o nel peggiore dei casi, come ha dichiarato recentemente lo Shakespeare’s Globe, chiudere definitivamente.
Inutile sottolineare l’impatto che uno scenario simile potrebbe avere sull’intera nazione. La cultura garantisce un importante contributo annuo al bilancio del paese, essendo tra le industrie più produttive.
Immaginare Londra senza il suo West End risulta poi impossibile: le luci si accendono, il sipario si alza, la commedia va in scena, il pubblico applaude. È un rituale che appartiene da sempre alla vita nella capitale e di cui la città non può fare a meno.
Il National Theatre
Se nel vasto panorama londinese l’offerta teatrale è praticamente infinita (c’è chi dice che sarebbe possibile assistere ad un dramma shakespeariano ogni giorno), credo che dopo aver visitato un certo numero di teatri, si finisca per sceglierne uno in particolare: per chi scrive è il National Theatre.
Guidata da Sir Laurence Olivier, la compagnia del National Theatre debuttò nel 1963 con una versione di “Amleto” interpretata da Peter O’ Toole. Negli anni successivi il gruppo ebbe sede all’Old Vic, fino al 1976, quando il National Theatre si trasferì nell’attuale edificio sulla riva sud del Tamigi. Dal momento della sua fondazione, il National ha prodotto più di 800 opere, con rappresentazioni divenute iconiche; tra queste ricordiamo, “Resencratz and Guilderstern Are Dead” di Tom Stoppard, “History Boys”di Alan Bennett e più recentemente la trasposizione dal romanzo di Michael Morpurgo “War Horse” diretta da Marianne Elliott.

Quando stavo ancora cercando di orientarmi nella sterminata programmazione della capitale, un amico suggerì di vedere “Misterman” di Enda Walsh in scena al National: fu la mia prima esperienza fuori dal West End, lontano dal teatro più commerciale di Shaftesbury Avenue, verso una drammaturgia di cui ignoravo l’esistenza. Ricordo di essermi sentita talmente immersa nell’assurdità a tratti beckettiana dell’opera da scordare qualsiasi altra cosa. L’entusiasmo all’interno del Lyttelton era contagioso; in fondo il teatro non è altro che una magia che si dispiega davanti ai nostri occhi.
Angels in America
Negli anni, sono tornata al National in molte occasioni; tra le opere viste, ce n’è una a cui continuo a pensare a tre anni dal calare del sipario sulla produzione. Era il 2017, quello che ricorderò sempre come l’anno di “Angels in America”. Scritta da Tony Kushner e rappresentata per la prima volta dall’Eureka Theatre Company nel 1991, Angels è un dramma in due parti (“Millenium Approaches” e “Perestroika”) che prende in esame l’epidemia dell’AIDS: un testo altamente simbolico, a tratti surreale e dal forte contenuto politico.
Dopo il debutto londinese del 1992 al National, il 2017 si presentava come il momento ideale per un revival della pièce, con gli Stati Uniti che si avviavano nel secondo anno della presidenza Trump e il Regno Unito in preda al disordine generato dalla Brexit. Se in quel periodo di incertezza cercavamo risposte, a fornirle non furono certo i politici, ma fu la visione di “Angels in America” a guidarci nel caos che dominava le nostre giornate.
I protagonisti del dramma di Tony Kushner vivono un momento di estrema instabilità a livello sociale e politico: la comunità omosessuale è colpita dalla piaga dell’AIDS; il presidente di allora, il repubblicano Ronald Reagan, ignora l’impatto che l’epidemia sta avendo a livello nazionale; le vittime del virus sono costrette ad andarsene silenziosamente.

Prior Walter (nella versione del NT interpretato da Andrew Garfield) scopre di essere positivo all’HIV; il compagno Louis Ironson, incapace di affrontare la situazione, lo abbandona. Harper Pitt è dipendente dal valium e sposata ad un uomo, Joe, che si rivelerà omosessuale. Roy Cohn (personaggio realmente esistito) è un influente avvocato, colpevole di aver condannato, ingiustamente, Julius ed Ethel Rosenberg durante il maccartismo. Cohn, segretamente omosessuale, contrae la malattia, ma nega la sua natura fino alla fine.
Quelli ritratti in Angels sono tempi oscuri, in cui i protagonisti vagano in un universo privo di ordine: una condizione che ci definisce da sempre. La storia dell’umanità ha visto, periodicamente, la comparsa di epidemie, guerre e corruzione politica. In questo senso, il testo ci ricorda come lo stato di emergenza in cui viviamo non sia l’eccezione, ma la regola.
Eppure, quando Prior può porre fine al dolore, preferisce la vita:
“[…] I don’t know if it’s braver to die. But I recognize the habit. The addiction to being alive. We live past hope. If I can find hope anywhere, that’s it, that’s the best I can do. It’s so much not enough, so inadequate but, Bless me anyway. I want more life”

La visione di Kushner si distacca nettamente dal perpetuo pessimismo di Beckett e dai finali drammatici di Arthur Miller. Nella scrittura di Kushner c’è speranza: the world only spins forward.
“Angels in America” continua ad avere forte rilevanza nell’attualità, con una nuova epidemia giunta ad affliggere il pianeta. Per questo motivo il teatro, e le arti in generale, diventano necessarie: perchè forniscono risposte, scatenano dibattiti e contribuiscono a renderci esseri umani migliori. Non lasciamo che si spengano lentamente.
© Foto copertina Martina Ciani