Un approfondimento sui film della 76esima edizione del Festival di Venezia.
Con l’avvicinarsi della conclusione del Festival del Cinema di Venezia, possiamo provare a delineare un profilo della manifestazione. Sono tornata al Lido dopo alcuni anni di assenza e ho trovato un notevole cambiamento: l’aumento significativo delle presenze. Per un affezionato del festival, vedere le vie del Lido animate da persone di ogni età, è sicuramente emozionante.
Allo stesso tempo però, ci rendiamo conto che la manifestazione a cui prendevamo parte da studenti di cinema, non esiste più. Venezia è ora una vetrina per i film che domineranno la prossima stagione cinematografica e che aspirano all’ambita statuetta dorata. Pur essendo da sempre un festival di primo livello (ricordiamo che la rassegna esiste da prima di Cannes), oggi Venezia ha raggiunto un livello superiore, conquistando nuovo prestigio e attirando un’immensa folla di festivalieri.

© Foto Martina Ciani
Se negli anni passati sembrava essersi ristabilito il primato di Cannes, ora la kermesse veneziana è da ritenersi allo stesso livello del festival francese. Certo, la passata edizione di Cannes proponeva alcuni dei nomi più prestigiosi nel panorama cinematografico mondiale, come Pedro Almodóvar, Ken Loach, Terrence Malick, Jim Jarmusch, Xavier Dolan e Quentin Tarantino. Ma anche al Lido sono arrivati i nuovi film di Pablo Larraín, Roman Polanski, James Gray, Steven Soderbergh, Noah Baumbach e Olivier Assayas.
Un aspetto fondamentale separa Venezia da Cannes: mentre la manifestazione italiana è pensata per il pubblico, il festival francese è dedicato ai membri dell’industria cinematografica. E questa è una differenza sostanziale. Credo che i festival non debbano appartenere a produttori e addetti al mestiere, ma essere rivolti a chi nel cinema non vede scopi di lucro, tutti quegli individui che amano la settima arte perché parte fondamentale della loro vita.

© Foto Martina Ciani
Ho partecipato a numerose edizioni del Festival di Venezia e nei giorni della rassegna ho percepito di vivere una realtà alternativa, in cui il ritmo della quotidianità viene dettato dalla durata di un film. Alla recente edizione, questa sensazione si è trasformata in qualcosa di diverso: più che sentirmi estraniata dagli eventi del mondo, ho creduto di trovarmi al centro di tutto ciò che succedeva. Perché se in età giovanile vediamo il cinema come mezzo di evasione dalla realtà, in età adulta un film di spessore fornisce risposte sul caos che ci circonda.
Nei disperati tempi moderni, l’evasione è un lusso che non possiamo più permetterci. È fondamentale capire e conoscere per non ripetere gli stessi errori. Per questo motivo ho amato particolarmente i film selezionati quest’anno alla Mostra del Cinema di Venezia. Perché attraverso le pellicole viste, ho potuto immergermi in storie che conoscevo solo superficialmente, storie che si sono rivelate indispensabili per comprendere il presente.
Penso ad esempio a J’Accuse (An Officer and A Spy) di Roman Polanski. Mettendo da parte le polemiche rivolte al regista e i commenti della presidente di giuria Lucrecia Martel, ciò che resta dell’ultimo Polanski è un grande film. Un’opera in cui vengono denunciate le ingiustizie perpetrate dal potere e dove compare una piaga che continua ad affliggere la società: l’antisemitismo. J’Accuse è incentrato sul caso Dreyfus che sconvolse la politica francese dal 1894 al 1906. Accusato di essere una spia per la Germania, Alfred Dreyfus venne condannato alla prigionia nell’isola del Diavolo.

Polanski racconta la vicenda attraverso l’ufficiale Georges Picquart (Jean Dujardin), capo dell’unità di controspionaggio che incolpò Dreyfus. Quando Picquart si accorge che le accuse contro Dreyfus (Louis Garrel) sono basate su prove false, tenta, riuscendoci nel finale, di far riaprire il caso. Il Governo francese si oppone con ogni mezzo fino a quando ostruire la verità è impossibile. Da uomo che rispetta la legge e il suo Paese, Picquart diventa un oppositore e facendo ciò si riscatta, permettendo il trionfo della giustizia.
Polanski si congeda però con una nota amara: nell’incontro finale tra Dreyfus e Picquart, il regista mostra come l’ufficiale sia stato premiato con un avanzamento di carriera, mentre Dreyfus, penalizzato dagli anni di prigionia, sia rimasto allo stesso grado. Nonostante richieda una promozione, Dreyfus viene informato che non è possibile. La scena sottolinea come la giustizia debba spesso piegarsi ai compromessi.
Nello stesso giorno dell’atteso film di Polanski, è stato presentato (fuori concorso) Seberg di Benedict Andrews. Per quanto la pellicola sia diversa nell’ambientazione e nella forma da J’Accuse, si contraddistingue per degli elementi in comune con quanto messo in scena da Polanski.

Il film di Andrews ruota attorno a Jean Seberg (Kristen Stewart), l’attrice americana che grazie a Jean-Luc Godard divenne icona della Nouvelle Vague. Interessata alle cause politiche, negli anni ’60 la Seberg offrì delle cospicue donazioni in denaro al gruppo delle Pantere Nere. Per questo motivo l’attrice fu sospettata di azioni antiamericane e posta al centro delle indagini condotte dal dipartimento dell’FBI presieduto da J. Edgar Hoover. Jean Seberg fu distrutta psicologicamente dall’inchiesta di cui fu vittima, che pose anche fine alla sua carriera.
Come il film di Polanski, Seberg presenta un personaggio, il detective Jack Solomon (Jack O’Connell) che una volta appreso il modo operante dei suoi superiori, ne rimane disgustato. Picquart e Solomon sono individui colpiti dalla disumanità della situazione in cui sono coinvolti e tentano di distaccarsene. Anche Seberg si conclude con l’incontro dei due personaggi protagonisti. E anche in questo caso il finale ha un risvolto negativo: Jean Seberg morirà in circostanze misteriose nel 1979.
Non è forse un caso che le due pellicole siano state presentate nella stessa giornata del festival. Entrambe le opere mostrano la corruzione del potere e il modo in cui la verità viene mascherata per proteggere l’interesse dello stato. Quelle raccontate in J’Accuse e Seberg sono storie immuni da barriere temporali.
Come spesso accade, i primi giorni del festival sono quelli più intensi. Abbiamo già parlato, dedicandogli uno spazio a parte, di Marriage Story, dell’attesissimo Joker e della sorpresa italiana Martin Eden. In questo caleidoscopio di autori, è inevitabile perdere qualche titolo: in questo caso Ad Astra di James Gray, non particolarmente amato dalla critica italiana, ma ben accolto dalla stampa estera, e Wasp Network di Olivier Assayas.
Pablo Larraín con il suo Ema è invece riuscito a sconvolgere il caldo pomeriggio di un sabato festivaliero. Già frastornata dalla visione di Joker, Larraín ha ulteriormente stravolto la mia percezione di spettatrice, trasportandomi in una corsa di visioni frenetiche. Ema ha ancora una volta diviso le platee del Lido. Nel raccontare la storia di una coppia vittima di un’adozione finita male, Larraín sovverte ogni forma, ricordando a tratti la narrazione anarchica di Godard. Ema è un film femminista perché è la donna protagonista a trionfare su tutto.

Anche se preferisco il Larraín dai risvolti meno bizzarri (mi sento più vicina a Jackie che a Tony Manero), non posso che meravigliarmi di fronte ad alcune immagini proposte dal regista, come quella del semaforo incendiato in apertura del film. Che è poi forse un espediente usato da Larraín per metaforizzare il totale abbandono delle regole che caratterizza Ema.
Quando si parla di virtuosismi ed eleganti costruzioni dell’immagine, non si può non pensare a Paolo Sorrentino. Nell’attuale cinema italiano sono pochi i registi che utilizzano l’eleganza formale e i virtuosistici movimenti di macchina, propri al cinema del regista napoletano. Sorrentino ha presentato al Lido due episodi da The New Pope con Jude Law, John Malkovich e Silvio Orlando.

Sebbene la visione sia limitata agli episodi sopracitati, sembra che Sorrentino abbia approcciato questa nuova incursione nel mondo televisivo con una metodologia cinematografica. Per questo motivo The New Pope risulterà quasi sprecato sul piccolo schermo, troppo limitato, quasi ottuso. A Sorrentino serve il grande schermo: è nel buio della sala cinematografica che le sue trovate trionfano e fuoriescono dai confini predefiniti, insinuandosi nello spettatore. Alcune scene sono di una bellezza visiva che incontriamo raramente: quella in cui un gruppo di religiosi si purifica tra le acque del mare, il ralenti del cane che fugge durante l’attentato al Vaticano e l’immagine della televisione che trasmette messaggi di estremisti tra le mura sacre della chiesa.
Quella di Sorrentino è pura poesia visiva, così come il cinema di Roy Andersson è un canto sull’esistenza. Già vincitore del Leone d’oro a Venezia 71 con Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, Andersson porta al Lido About Endlessness, un insieme di tableaux vivant sull’assurdità della vita. Utilizzando un linguaggio simile a quello del precedente film, Andersson attinge dal teatro beckettiano in alcune scene, mentre in altri episodi mette in scena un affascinante lirismo narrativo. Quello del regista svedese non è un cinema destinato alle vaste platee, ma piuttosto ad un pubblico che riesce ancora a farsi sorprendere dalla costruzione di un’immagine.

Tra i tanti titoli drammatici presenti al Lido, The Laundromat di Steven Soderbergh regala al pubblico di Venezia una visione satirica sulla vicenda dei Panama Papers. Tratto dal libro di Jack Bernstein, il film racconta, attraverso una serie di vignette, lo scandalo dell’azienda Mossack Fonseca, colpevole di riciclaggio di ingenti somme di denaro ed evasione fiscale. La sorpresa nella pellicola è ancora una volta Meryl Streep, che compare in più ruoli, di cui uno svelato soltanto nel finale.

A guidarci attraverso questa vicenda paradossale sono gli stessi Mossack e Fonseca (Gary Oldman e Antonio Banderas), ritratti da Soderbergh come due showman protagonisti di un decadente spettacolo in un casinò di Las Vegas. Quella utilizzata dal regista è sicuramente la forma più efficace per dipingere l’episodio dei Panama Papers: Soderbergh affronta la questione con un tono da commedia, ricordando a tratti i Cohen, e ridicolizzando certe situazioni.
A Venezia quindi, ci sono state numerose sorprese e credo che in queste giornate finali, il pubblico continuerà a meravigliarsi di fronte a titoli provenienti da ogni parte del mondo. Sono attesi oggi sugli schermi del festival Waiting for the Barbarians del colombiano Ciro Guerra e il film musicale di Roger Waters. The Burnt Orange Heresy di Giuseppe Capotondi chiuderà domani questa edizione della Mostra.
Dopo aver preso parte ad un festival cinematografico come quello di Venezia, la sensazione che pervade le nostre giornate è lo stupore. Stupore dovuto alla constatazione che nonostante viviamo in una società ormai alla deriva, in tanti abbiamo ancora qualcosa in cui credere. Qualcosa che non conosce confini geografici, barriere di età o di genere, che non disprezza nessuno e al cui cospetto siamo tutti uguali: il cinema.
© Foto Cover Martina Ciani