Il cortometraggio con protagonista Terence Stamp fa parte del film a episodi “Tre passi nel delirio”.
Nel 1968 Fellini realizzò un mediometraggio ispirato all’opera di Edgar Allan Poe Mai scommettere la testa con il diavolo, che andava a comporre il trittico di Tre passi nel delirio, di cui facevano parte anche Metzengerstein di Roger Vadim e William Wilson di Louis Malle.
Della storia di Poe, Fellini mantiene soltanto il finale, trasportando la vicenda nella Roma anni ’60. Toby Dammit (Terence Stamp) è un attore inglese famoso per le sue interpretazioni shakespeariane, che giunge nella capitale per girare una sorta di spaghetti western cattolico.
La Roma dipinta da Fellini non è più quella de La dolce vita dove la magnificenza della città riusciva a nascondere, almeno sulla superficie, il degrado morale della società. Qui la capitale è ritratta come un girone dell’inferno, con un cielo dal colore rosso acceso e un traffico perennemente paralizzato che deturpa l’antica bellezza del Colosseo. È un ambiente caotico e terrificante che non risparmia nessuno, su cui Fellini tornerà nella sequenza del raccordo anulare in Roma e nelle scene di una città soffocata dalla spazzatura in Ginger e Fred.
Toby Dammit, lo dice già il nome che suona come dannazione, è destinato ad un epilogo inquietante, anticipato dalla scena iniziale dell’aeroporto in cui il protagonista vede il diavolo con le sembianze di una bambina. Con questo personaggio, Fellini prosegue il discorso sulla vuotezza esistenziale iniziato ne la Dolce vita ed estremizzato in 8 e ½; ma se nelle pellicole precedenti si riusciva ad intravedere una possibilità di salvezza, in Toby Dammit questa è totalmente negata.
Il protagonista è allo stesso tempo vittima e carnefice della macchina cinematografica che gli ha dato successo; Dammit è disilluso, ricorda il decadentismo di alcune rock star (su tutti Brian Jones), vestito come un divo dimenticato della Swinging London. Del suo successo, Dammit non sa che farsene, lo ripudia e lo rinnega perché non crede di meritarlo. È forse qualcuno che ha conosciuto la corruzione dello spettacolo troppo presto, rimanendo deluso da ciò che si cela dietro la sua apparente bellezza.
Il cinema è infatti ridotto ad un baraccone autocelebrativo e privo di gusto, come dimostra la scena degli Oscar Italiani, in cui Dammit incontra starlet che lo venerano e da cui fugge inorridito. Nella sequenza finale, Dammit corre verso una meta ignota, incontrando così il suo amaro destino: è l’unica risorsa che possiede per liberarsi dalla futile esistenza in cui si trova intrappolato.
Girato tre anni dopo Giulietta degli spiriti, qui Fellini utilizza nuovamente un linguaggio che vira verso l’horror, già esplorato nel titolo precedente. Il film diventa anche manifesto della conclusione degli anni ’60, con la sua critica ai pretenziosi intellettualismi sessantottini – che il regista non ha mai amato- identificabili nella figura del prete, improvvisato esperto cinematografico.
Per il suo uso del grottesco e di un tono decisamente lugubre, in Toby Dammit Fellini sembrava aver già intravisto la cupezza che avrebbe caratterizzato la decade successiva.